Il contenuto di questa sentenza della Corte di Cassazione penale si
riferisce ad uno degli obblighi più importanti che il legislatore ha voluto
porre a carico del datore di lavoro a tutela dei lavoratori dipendenti ed è
quello della formazione del lavoratore stesso che, secondo l’art. 37 del D.
Lgs. 9/4/2008 e s.m.i. contenente il Testo Unico in materia di salute e di
sicurezza sul lavoro, deve essere sufficiente ed idonea con particolare
riferimento ai rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle conseguenti
misure e procedure di prevenzione caratteristici del settore o del comparto di
appartenenza dell’azienda. Il caso particolare preso in esame in questa
sentenza riguarda la formazione di un lavoratore allorquando allo stesso vengono
affidate più mansioni da svolgere durante la sua attività lavorativa. L’obbligo
da parte del datore
di lavoro di assicurare al lavoratore una formazione sufficiente e adeguata
in materia di salute e sicurezza sul lavoro, secondo la suprema Corte, va
riferito a tutte le singole mansioni che lo stesso è chiamato a svolgere in
maniera tale da renderlo edotto su tutti i rischi inerenti ai lavori ai quali è
addetto.
Il fatto,
il ricorso in Cassazione e le sue motivazioni
Il Tribunale ha assolto l’amministratore di una s.r.l. in qualità
di datore di lavoro ed un preposto della stessa società dal delitto di omicidio
colposo in danno di un operaio perché il fatto non sussiste. Agli imputati
veniva addebitato che, per negligenza, imprudenza ed imperizia e violazione di
specifiche norme di prevenzione infortuni (mancata informazione e formazione
del lavoratore sui rischi, omessa previsione del rischio nel documento di
valutazione, mancanza di adeguata manutenzione dell'autocarro, assenza di un
fermo automatico del cassone in caso di accesso agli organi in movimento; ecc),
avevano cagionato la morte di un dipendente il quale, per rimuovere del fango
dall'albero motore di un autocarro aziendale che stava utilizzando unitamente ad
un altro lavoratore, nel mentre era tra la scocca del camion ed il cassone ribaltabile,
a causa dell'abbassamento repentino di quest'ultimo, veniva travolto dallo
stesso subendo gravi lesioni al capo che portavano al suo immediato decesso.
La Corte di Appello ha confermata la pronuncia di assoluzione del
Tribunale e nel fare ciò ha formulato alcune osservazioni. La stessa, infatti, ha posto in evidenza che il
giorno dei fatti il lavoratore infortunato, assieme ad un altro lavoratore
della stessa azienda, doveva trasportare del terreno di scavo per cui si era allontanato
dal capannone per scaricare la terra allorquando il camion si era fermato per
un guasto all'albero motore che perdeva olio. A tal punto uno dei lavoratori si
era allontanato per andare a prendere un secchio ove raccogliere l'olio mentre
l’altro di sua iniziativa aveva cercato di riparare il guasto, rimanendo
schiacciato sotto il cassone improvvisamente abbassatosi.
Del fatto, secondo la Corte di merito, non doveva rispondere il lavoratore
che si era accompagnato all’infortunato in quanto non aveva la qualifica di
"preposto" e la sua autorevolezza gli derivava solo da essere uno dei
dipendenti più anziani. Lo stesso inoltre svolgeva la sua attività su un piano
paritario con la vittima, la quale aveva preso l'iniziativa dell'intervento di manutenzione
senza alcun ordine o consenso, e, non essendo presente al momento dell’accaduto,
non aveva pertanto potuto dissentire. Secondo
la Corte di Appello non doveva rispondere neanche il datore di lavoro
considerato che l'iniziativa dell’infortunato era stata improvvisa ed imprevedibile,
essendo l'azienda dotata di due persone specificamente addette alla
manutenzione dei mezzi e considerato ancora che il lavoratore aveva svolta un'attività al di fuori delle mansioni
attribuite allo stesso.
La Corte distrettuale ha, pertanto, confermata l'assoluzione valutando
anomala ed abnorme la condotta della vittima la quale aveva agito di sua
iniziativa, al di fuori di ordini o prassi aziendali, pur potendo far ricorso,
per sopperire all'inconveniente, a personale specializzato presente in azienda.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso alla Corte di Cassazione il
difensore delle parti civili il quale ha lamentato prioritariamente che la
Corte di Appello, dopo avere stabilito che la vittima era un
"tuttofare" sia presso l'abitazione del datore di lavoro che presso
l'azienda, aveva valutato privo di significato che il lavoratore infortunato
non avesse ricevuto informazioni e formazione in ordine all'attività da
svolgere, considerato che più volte aveva anche svolto lavori di manutenzione
meccanica, richiedendo in officina la fornitura di pezzi di ricambio. Dal
ricorrente è stato inoltre messo in evidenza il difetto di motivazione della
sentenza laddove quella della vittima era stata ritenuta una iniziativa anomala
ed imprevedibile e quindi causa sopravvenuta, da sola idonea a determinare
l'evento, a fronte del fatto che egli era stato effettivamente utilizzato in
azienda, senza avere una specifica mansione e, quindi conseguentemente, senza
un'adeguata formazione ed informazione sui rischi, per cui era prevedibile che
si adattasse a fare qualsiasi lavoro ritenesse rientrare nelle sue non definite
mansioni.
Le decisioni
della Corte di Cassazione
Il ricorso è stato ritenuto fondato limitatamente all'affermata
esclusione di responsabilità del lavoratore che accompagnava l’infortunato. La
suprema Corte, nel premettere che l'incidente si era verificato in quanto il lavoratore
infortunato, allo scopo di rimuovere del fango che non consentiva all'albero
motore di funzionare regolarmente, si era messo all'interno del perimetro del
telaio dell'autocarro a cassone alzato e che smontando il raccordo del tubo
idraulico, aveva determinato la caduta immediata del cassone che l'ha travolto
determinandone il decesso, ha messo in evidenza che, al momento del fatto, l’infortunato
stava espletando delle mansioni non corrispondenti alla qualifica di assunzione
che era quella di "impiegato tecnico di cantiere".
Vero è che dal punto di vista del diritto civile, ha proseguito la
Sez. IV, il datore di lavoro può esercitare unilateralmente lo "ius
variandi" delle mansioni del dipendente, sebbene nei limiti consentiti
dall'articolo 2103 cod. civ., ma è anche vero che, dal punto di vista del
rispetto delle esigenze di prevenzione infortuni, al cambio delle mansioni deve
seguire un'adeguata formazione del lavoratore ed informazione sui rischi della
sua attività. Con consolidata giurisprudenza la Corte di Cassazione ha più
volte affermato, infatti, che “in tema di
prevenzione degli infortuni sul lavoro, il datore di lavoro ha l'obbligo di
assicurare ai lavoratori una formazione sufficiente ed adeguata in materia di
sicurezza e salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro ed
alle proprie mansioni, in maniera tale da renderlo edotto sui rischi inerenti
ai lavori a cui è addetto”. Inoltre, poiché il datore di lavoro è tenuto a
rendere edotti i lavoratori dei rischi
specifici cui sono esposti, ne consegue, ha proseguito la Sez, IV, che è
ascrivibile al datore di lavoro, in caso di violazione di tale obbligo, la
responsabilità del delitto di lesioni colpose allorché abbia destinato il
lavoratore, poi infortunatosi, all'improvviso ed occasionalmente, a mansioni
diverse da quelle cui questi abitualmente attendeva senza fornirgli,
contestualmente, una informazione dettagliata e completa non solo sulle
mansioni da svolgere, ma anche sui rischi connessi a dette mansioni (Cass. Sez.
4, Sentenza n. 41707 del 23/09/2004 Ud. (dep. 26/10/2004), Rv. 2302579).
Nel caso di specie, la violazione di tali regole di prevenzione e
sicurezza, secondo la suprema Corte, si è palesata evidente se solo si ponga
mente alla attività svolta dal lavoratore che, qualificato appunto "impiegato
tecnico di cantiere", è stato invece in realtà adibito alle più svariate
mansioni, anche manuali, non solo nell'ambito aziendale, ma anche come
"tuttofare" rispetto alle esigenze personali del datore di lavoro. Pertanto
la peculiarità nell’accaduto non è stata tanto individuata nel fatto che il
lavoratore abbia svolto mansioni diverse da quelle di regola effettuate, bensì
nel fatto che allo stesso siano state attribuite mansioni
"indefinite", con conseguente deficit di formazione ed informazione.
“Ne consegue che”, ha sostenuto
ancora la suprema Corte, “una volta che
il lavoratore sia addetto a svolgere funzioni per le quali non ha ricevuto
adeguata formazione; soprattutto, come nel caso che ci occupa, quando la ‘fluidità’
di tali mansioni non consente di definire in modo preciso il suo profilo
professionale; quando questi ponga in essere comportamenti imprudenti (smontaggio
di un circuito idraulico a cassano alzato), non può dirsi che gli eventi letali
che ne conseguono sono il frutto di condotte anomale ed imprevedibili, in
quanto la imperizia del comportamento è direttamente ricollegabile alla sua
mancata formazione ed informazione”.
La Corte di Cassazione non ha pertanto condivisa la pronuncia del
giudice di merito che, nell'escludere la responsabilità del datore di lavoro,
ha ricondotto l'evento mortale alla negligenza della stessa vittima che con il
suo comportamento avrebbe posto in essere una condotta idonea da sola a
determinare l'evento. Il giudice di merito, invece, secondo la Sez. IV, alla
luce dei principi sopra indicati avrebbe dovuto valutare se, in ragione delle
concrete modalità di svolgimento del lavoro, poteva riconoscersi una
responsabilità in capo al datore di lavoro avendo questi tollerato che il lavoratore
non fosse investito di specifiche mansioni e avendo omesso di fornirgli,
personalmente o a mezzo della struttura aziendale, una adeguata formazione ed
informazione nonché avendo consentito che il lavoratore, titolare di mansioni
"indefinite", si cimentasse nelle più svariate attività di lavoro
manuale, senza che avesse in relazione ad esse una specifica formazione
professionale.
Per quanto sopra detto, quindi, la suprema Corte di Cassazione ha
annullata la sentenza agli effetti civili, limitatamente alla posizione del datore
di lavoro con rinvio al giudice competente per valore in grado di appello. Circa
infine la posizione del preposto, la Sez. IV ha rigettato il ricorso proposto
nei suoi confronti ed ha confermata la sua assoluzione in quanto la stessa è
stata determinata dal fatto che non è risultata provata la sua qualifica di preposto
e quindi di sovraordinazione gerarchica rispetto alla vittima.
Nessun commento:
Posta un commento